In casa Pelliccetti c’è tensione per via di un brodo versato, ma il brodo è solo il pretesto per fare esplodere una delle tante liti che, solo dopo pochi mesi di convivenza, sono ormai frequenti tra Federico Pelliccetti, sessantenne, e Maria Brugalossi, cinquantacinquenne, sua “fantesca”, cioè domestica, e amante.
In casa c’è anche il piccolo Enrico, un bambino di cinque anni che Pelliccetti, detto Niccone, ha avuto dalla precedente domestica–amante Rosina, morta qualche mese prima di tubercolosi, all’età di venti anni, penultima di una serie di donne maltrattate da Pelliccetti.
Il padre manda il piccolo fuori dalla porta. Maria, in cucina, lava i piatti, e tace, per non scatenare l’ira del Niccone. Ma, all’improvviso, Federico si avventa sulla donna brandendo un coltello e gridando: “Ora a te, poi ammazzo me”, e la colpisce una, due, tre volte. La donna, tutta insanguinata, scappa verso la porta, ma la trova serrata con il catenaccio.
Con la forza della disperazione, la Brugalossi riesce ad aprire e a uscire, gridando. Non s’accorge che il padrone-convivente tira dentro il bambino e chiude di nuovo, barricandosi dentro. Intanto si è raccolta una piccola folla, di vicini ma non soltanto.
Siamo a Todi, sono quasi le tre di un caldo pomeriggio dell’estate 1894, il 9 luglio per l’esattezza, e dalla casa in vicolo San Salvatore le grida di Maria, donna matura che ha lasciato la natia Montecastello attirata dall’idea di un posto di lavoro ma anche da una promessa di matrimonio, giungono fino nella vicina “piazza grande”.
Quando arrivano i carabinieri la donna, sanguinante, già è stata portata all’ospedale, dalla piazza è sopraggiunta la guardia municipale Erminio Belli, e la folla che si è radunata davanti alla porta dell’appartamento grida: “Fuori l’assassino, fuori l’usuraio, fuori il ladro”. Bussano, con violenza e con urgenza, anche perché sono risuonati tre colpi di revolver e dentro, in casa con il padre, c’è il bambino.
Dal portone principale, aperto, si accede a un cortile interno, per arrivare in casa Pelliccetti si deve salire una scala, un pianerottolo permette l’accesso all’abitazione. Ma dentro, dove prima impazzavano grida disumane, tutto tace.
Non valgono intimazioni e richieste, per entrare si deve chiamare il fabbro Enrico Valentini. La prima stanza è la cucina, dove regnano silenzio e ordine. I carabinieri, seguiti da qualche curioso, entrano nell’ambiente adiacente, dove, al centro, si trova una tavola con stoviglie e attrezzature da cucina, ma anche un piccola accetta per spaccare la legna. Anche qui non vi è segno di cose fuori luogo, se non fosse per alcune gocce di sangue sul pavimento. La stanza permette l’accesso a un corridoio, qui le gocce di sangue sono numerose. In fondo una porta dalla quale si entra in un altro ambiente…
Appena varcata la porta i carabinieri, pure abituati a tutto, provano una stretta al cuore: per terra, su un pagliericcio coperto da una coltre di cotone verde, s’intravede il piccolo Enrico Pelliccetti. C’è sangue dappertutto, sul pavimento, sul pagliericcio, sulla coltre, sul soffitto. Ma il timore per la sorte del bambino si placa subito: Enrico si muove, parla, viene loro incontro, è chiaro che nessuno gli ha fatto del male. La stanza successiva è la camera da letto. Qui trovano un letto matrimoniale vuoto, un comodino dove è appoggiato un revolver, sul pavimento tre bossoli e, su un letto a una piazza, Federico Pelliccetti ricoperto di sangue. E’ ferito, il tentativo di suicidio è andato a monte, e viene subito soccorso.
Anche Pelliccetti viene ricoverato. In un primo momento si rifiuta di parlare con i carabinieri, ma manda a chiamare Clodoveo Retti, direttore della locale Banca perugina di sconto: con Retti ritrova la parola e gli affida i suoi denari e preziosi, biglietti di banca, monete d’oro e d’argento, libretti bancari e postali, per un totale di 11 mila lire, una bella somma all’epoca. Intanto le indagini vanno avanti e inizia il botta e risposta delle accuse e delle difese.
“Non voleva bene a mio figlio, voleva portare in casa i suoi amici, in particolare un uomo di Montecastello”, dice Pelliccetti, ma Maria per tutta riposta: “Mi maltrattava, maltrattava anche il figlio, l’ho denunciato per questo, e lui mi ripeteva ‘Tu sei la rovina mia, tu sei l’assassina mia’. Prima di denunciarlo mi ero confidata con Antonio Fossombroni e Paolo Bravetti. Avevo 60 lire alle poste di Montecastello e quando me le feci portare dal postino, Giulio Capociuchi, me le ha prese lui”.
Intanto vengono fuori alcuni elementi che fanno pensare alla premeditazione. Il coltello era stato appena arrotato, per la precisione da Domenico Falcinelli, un arrotino originario di Bastia, tra il 5 e il 6 luglio (“mi proibiva di usarlo per tagliuzzare la sfoglia perché aveva paura che l’arrotatura si rovinasse”, affermerà Maria). Viene fuori anche che Pelliccetti aveva ordinato al falegname Antonio Stella una cassa da morto “pomiciata (sic) ad olio, con una croce riportata”. Le perizie sul revolver vengono fatte dall’armaiolo Alessandro Chiaramonti, ma qui non salta fuori niente di particolare.
Particolare era invece la vita di Pelliccetti, calzolaio, soldato pontificio a Roma, di nuovo calzolaio a Todi, pensionato, dedito a piccoli commerci, e, secondo i carabinieri, “banchiere in piccolo, che faceva interessi più alti del consentito”, insomma uno che prestava soldi a interesse. Vengono fuori anche i precedenti: nel 1864 Angelo Rubini l’ha querelato per ferimento, nel 1866 Valerio Pambianco per “scattamento di pistola”, nel 1875 è stato denunciato per furto.
Vincenzo Pambianco, pastaio, dichiara: “Quando ero giovane mentre giocavo con altri ragazzi in piazza del Mercato, venni preso a sassate da Pelliccetti”. Intanto Pelliccetti, ricoverato, confida allo “spedaliere” Alfredo Scacchia: “Se riesco ad andare libero ne ho quattro da ammazzare”.
Angelo Pensa dichiara: “Mi disse che non voleva sposarsi con la Brugalossi e anche che voleva mandarla via di casa”. Cesare Busti, fornaio e vicino di casa racconta: “Maltrattava la Rosina, che minacciava di buttarsi nel pozzo dell’orto”. Della Rosina salta fuori anche il padre, Giovanni Grancini, originario di Fratta Todina, ma residente a Montecastello, che dichiara: “La mandai come domestica in casa sua che aveva 15 anni, ma ben presto ne fece la sua amante, la maltrattava e la picchiava, quando è nato il bambino non l’ha riconosciuto subito”.
Il processo si svolge tra il 9 e il 27 ottobre 1894, avvocati sono due principi del foro di Perugia, Alessandro Bianchi e Francesco Innamorati, lesioni e tentato omicidio l’imputazione: il 22 novembre viene emanata la sentenza che lo condanna. Federico Pelliccetti fa ricorso ma le ferite che si è procurato sparandosi si aggravano e nel giugno 1895 muore nelle carceri di Perugia.