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Pagine da un diario su un mondo scomparso e dimenticato in quel di Spina di Marsciano: una famiglia contadina, un bambino con la passione per la musica, un maestro altero e un padrone cattivo

Quando avevo sei o sette anni, d’inverno venivano a veglia a casa nostra gli amici del paese e i contadini, anche da lontano. Di fuoco non ce n’era tanto perché la legna era poca. Così nella grande cucina la gente si sedeva nei banchi e su qualche ceppa. Le sedie erano poche e la gente tanta. Solo noi eravamo diciotto. Quelli vicini al fuoco stavano bene ma gli altri sentivano freddo anche perché le porte era come se non ci fossero, le finestre avevano i vetri rotti e i “panni” non erano tanti. Però stavamo insieme contenti.
A me mi facevano stare nella nicchia perché dovevo suonare il soffietto. Mi chiedevano una canzone e io la suonavo senza sbagliare una nota. Tutti rimanevano incantati. Il soffietto, quel tubo di ferro che serviva per alimentare le fiamme, per me era come un clarinetto. Ci sapevo suonare di tutto.
A Spina c’era una famiglia che si chiamava Boncini. Lavoravano tutti, ma poco. La maggior parte di loro faceva il sarto. Ma più che mai rattoppavano, cioè mettevano le pezze ai pantaloni, alle giacche e a quello che capitava. La gente non aveva né pezze, né filo e neanche l’ago e per questo andavano dal sarto. I Boncini erano molto bravi e onesti. Altri lavoravano alla Posta, chi in ufficio e chi come portalettere. Tutto in casa. A quei tempi tutti camminavamo a piedi ed eravamo poveri.
Il più anziano era portalettere, molto buono come tutta la razza. Portava la posta a piedi anche alle “Masse” che era lontano quattro o cinque chilometri. Questo uomo aveva un paio di ciabatte tutte rotte, tanto l’estate che l’inverno. Ma quando la terra era “molla” gli si cavavano. Lui, poveraccio, le rimetteva ma poi era costretto a tenerle sottobraccio. Specie quando tornava a casa con qualche bicchiere di vino in più, perché i contadini erano tanto buoni che tutti lo invitavano e tutti gli davano qualcosa: chi una fila di pane, chi la farina, chi un po’ di uova, perché anche lui aveva dei figli piccoli e lo stipendio era poco.

Uno dei sarti suonava il clarino molto bene. Un altro suonava il filicorno soprano. Poi c’era il più anziano che dicevano fosse un grande musicista. Però non faceva niente
. Camminava in continuazione. Era molto alto e molto anziano. Portava sempre, estate e inverno, una grossa mantella nera. Era molto stimato.
Quando, tanti anni dopo, sono diventato custode del cimitero, ho dovuto fare l’esumazione di quell’uomo con il mantello nero. Si chiamava Pubblio Boncini. Era stato seppellito sotto terra a un metro di profondità. Ho levato la terra con la pala. Quando sono arrivato alle ossa, ho preso la “cucchiara” da muratore e con grande delicatezza, rispetto e curiosità (c’erano parecchie persone a vedere) raschiavo piano piano e così l’ho scoperto dalla testa ai piedi. Si potevano vedere tutte le forme perfettamente. A quel punto gli ho detto una preghiera per quello che aveva fatto per me.
Il “sor Pubblio” era un maestro di musica molto appassionato. Quando andavo alle elementari, o mi vedeva o mi veniva a prendere a casa. Avevamo molto rispetto degli anziani. Dunque mi prendeva e insieme facevamo il giro del paese. Io qualche volta mi nascondevo ma lui mi trovava sempre e via a spasso. E lui in continuazione mi faceva domande e sempre di musica. “Quanto vale la semibreve?”. E io:”Quattro quarti”. “E la minima?”. “Due quarti”. E così via. A forza di giri per il paese e di domande avevo imparato bene. Questa storia è durata qualche anno.

Dopo la terza elementare non sono andato più a scuola perché un giorno a pranzo il mio babbo ha parlato mentre eravamo tutti a tavola. “Mi ha chiamato il padrone”, disse ad alta voce. Tutti erano un po’ impauriti e aspettavano la sentenza. “Senti bello – mi ha detto – non è meglio che tuo figlio Faustino lo mandi a guardare i porci che almeno qualcosa guadagna? A scuola che guadagna?”.
Un mio zio aveva un piccolo organetto “semitono”. Lo suonava benino ma io in pochi mesi avevo imparato a suonarlo molto meglio di lui. Avevo 9 anni.
Un ragazzo di nome Adalemio aveva una vecchia cornetta, ma ancora in ottime condizioni. I grandi della mia famiglia, che era molto unita e dove c’era un grande rispetto, visto che mi volevano bene parlarono con Adalemio, che con la tromba non imparava niente e non sapeva la musica, per sentire se la vendeva. In cambio della sua tromba si misero d’accordo per un quintale di grano.

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