Secondo il Ministero del Tesoro, dal 2002 fino al primo semestre 2007, sono stati circa 900 gli ormai famigerati contratti di finanza “derivata” (che tanta apprensione stanno causando anche in alcune Amministrazioni dell’Umbria) firmati da 525 enti locali (459 Comuni, 45 Province, 17 Regioni e 4 Comunità montane). Ben 151 contratti sono stati stipulati tra gennaio e il 30 giugno scorso.
A fine agosto, secondo le stime di Bankitalia, il valore di mercato alla data della rilevazione dei derivati in tasca agli enti locali era negativo per 1,055 miliardi: due terzi di questo valore sono in capo ai Comuni, un quarto alle Regioni e il resto alle Province.
Le perdite potenziali dei bilanci dei Comuni italiani qualora dovessero chiudere i derivati in essere sarebbero di 700 milioni di euro.
Nonostante qualcuno parli ormai senza mezzi termini di “allarme derivati” per la forte emorragia di denaro che questi strumenti potrebbero causare alle casse pubbliche, molti enti hanno continuato nei mesi scorsi a sottoscriverli, in quanto di prestano ad una ristrutturazione del debito e a fare fronte a spese che il rispetto dei vincoli del patto di stabilità interno non consente.
Secondo l’Unione delle Province italiane, l’attività di controllo dello Stato sugli strumenti di finanza derivata si è “rivelata purtroppo non tempestiva e forse non particolarmente stringente, visto che solo in sede di predisposizione del disegno di legge finanziaria 2008 si è inteso vincolare tutte le operazioni poste in essere a una valutazione ex ante da parte del Ministero dell’Economia, il cui ruolo invece si ritiene debba essere centrale per il sistema intero”.
Intanto l’Anci, l’associazione dei Comuni italiani, sta lavorando per creare un gruppo tecnico per aiutare soprattutto i piccoli Comuni ad orientarsi sul problema “derivati”, confermando dunque che il problema esiste.