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Con il voto contrario di Proposta Marsciano il Consiglio comunale ha recentemente approvato un atto con il quale si istituisce il registro delle coppie di fatto.
L’atto consiliare contiene alcuni passaggi che non condividiamo e l’acceso dibattito che sta interessando la politica nazionale non fa che confermare le nostre perplessità sull’opportunità di aver trattato e approvato un documento senza che una cornice nazionale ne abbia definito i contorni.
Con quanto segue, che in gran parte attinge alla documentazione prodotta dal “forum delle famiglie”, la cui posizione è da noi fortemente condivisa, intendiamo motivare il nostro convinto NO alla istituzione di questo registro delle coppie di fatto e invitiamo il Consiglio comunale a ripensare la sua posizione in attesa che il Parlamento nazionale maturi una corretta sintesi.

Quello di unione civile è un concetto non disciplinato da alcuna normativa e come tale al momento alquanto vago, peraltro ‘accertabile’ solo con un’autodichiarazione delle persone coinvolte da cui far nascere diritti e prerogative. L’amministrazione comunale al massimo può verificare la coincidenza tra residenza dichiarata ed effettiva abitazione di ogni singolo cittadino, ma certo non può indagare né verificare la natura solidaristica/opportunistica/affettiva della convivenza.
Il dpr n. 223/1989 già contempla le ipotesi di convivenza, definendo ai soli fini amministrativi il concetto di “famiglia anagrafica”, ben distinto dal concetto di famiglia nucleare. Se l’obiettivo dei Comuni è estendere i propri servizi ai conviventi va rilevato che già oggi i conviventi fruiscono di tutti i servizi erogati dagli enti locali e non è necessario istituire un registro, essendo sufficiente individuare quali prestazioni e servizi sono ora negati ai conviventi in quanto tali, per poi modificare i regolamenti comunali per estenderne l’accesso a questi ultimi, laddove si ritenga che la loro esclusione sia discriminatoria.

È pacifico che i Comuni non abbiano competenza per creare un nuovo “status” personale dei loro cittadini, perché l’art. 117 comma secondo lettera i) della Costituzione riserva esclusivamente alla legge statale la materia “stato civile e anagrafe”. In realtà un registro delle coppie di fatto intende fare proprio questo. Riconoscendo all’unione civile una determinata soggettività, attribuisce ai soggetti che lo compongono un nuovo status.
Questa sola considerazione dovrebbe già essere sufficiente a dimostrare che i Comuni, al di là di quanto dichiarato nelle rispettive delibere, non possono attuare una reale parificazione giuridica tra coppie coniugate e coppie di fatto e laddove adottino delibere dirette ad ottenere questo effetto si pongono in conflitto proprio con quell’articolo 3 della Costituzione che dichiarano di voler attuare.
La parificazione che il registro dichiara di voler realizzare, dunque, sul piano dei rapporti interni ai conviventi è priva di reali effetti, mentre sul piano dei rapporti con la civica amministrazione è profondamente iniqua e discriminatoria poiché crea una categoria di formazioni sociali i cui componenti sono titolari di soli diritti/prerogative/benefici di fonte comunale senza indicare alcun dovere corrispondente, disattendendo non solo l’articolo 3 ma anche l’art. 2 della Costituzione che, nel riconoscere i “diritti inviolabili dell’uomo” richiede “l’adempimento dei doveri di solidarietà politica economica e sociale”.

La formazione di una coppia di fatto è frutto di libera scelta privata delle due persone che la compongono e non espressione di una loro condizione originaria e costitutiva di inferiorità personale che richieda un intervento pubblico correttivo: è offensivo e ghettizzante dare ad intendere a chi abbia scelto di non sposarsi che è bene, quanto meno, lasciarsi “censire” in un registro. Se lo scopo del registro è superare una discriminazione esso, piuttosto, pare determinarla.

D’altra parte, è ammissibile che i Comuni neghino ai conviventi che non sono registrati benefici e diritti riconosciuti ai conviventi registrati? Se lo scopo è quello di non discriminare situazioni identiche nella sostanza, che differenza può porsi tra due conviventi iscritti al registro e due conviventi non iscritti? Le persone sono obbligate a registrarsi come coppia, se non sono sposate ma solo coabitanti, per godere dei servizi del Comune?
È ben noto a coloro che si occupano di diritto di famiglia che le cosiddette “coppie di fatto” sono tali: 1) perché rifiutano il matrimonio; 2) perché non possono contrarlo. Premesso che la prima categoria certamente non richiederà l’iscrizione al registro, poiché per scelta rifugge dall’ufficialità, sulla base di quale principio si selezionano le coppie appartenenti alla seconda? È evidente, infatti, che un registro non intenderà aprirsi a ricevere l’iscrizione di tutte le coppie che non possono contrarre matrimonio per impedimenti di legge (coppie dello stesso sesso, coppie di minorenni, coppie di parenti, coppie di persone già coniugate, coppie di persone incapaci di intendere e volere…).
Il Comune dovrà, cioè, effettuare una scelta tra tutte quelle coppie che non possono contrarre matrimonio: tuttavia, già decidere di inserire nel registro ad esempio le sole coppie dello stesso sesso, cui magari si aggiungono anche le coppie di separati non ancora divorziati, rappresenta una nuova discriminazione tra situazioni sostanzialmente identiche (tutte, cioè, escluse dal matrimonio).

Le persone che compongono le “coppie di fatto” non possono godere, allo stato attuale della nostra legislazione, di istituti riservati ai coniugi come la quota di successione ereditaria legittima, la pensione reversibile, le agevolazioni lavorative previste dalla legge. Tuttavia i componenti delle coppie di fatto non hanno, a differenza dei coniugi, reciproci obblighi di coabitazione, fedeltà, mantenimento ed assistenza morale e materiale: un registro comunale non ha la competenza per, né l’obiettivo di, estendere questi diritti e questi doveri alle coppie di fatto
Quale sarebbe dunque l’utilità della sua istituzione? In che modo il registro è in grado di tutelare il convivente debole?
È utile ricordare che tra le più recenti pronunce giurisprudenziali in materia assume particolare rilievo la sentenza della Corte costituzionale n. 138/2010 che esclude che la vigente disciplina della famiglia e del matrimonio violi l’art. 3 della Costituzione in quanto non ammette il matrimonio di persone dello stesso sesso.
La Corte ha anzi specificato che la questione afferente alle unioni tra persone dello stesso sesso (ma evidentemente anche tra persone di sesso diverso ma non unite in matrimonio) rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 2 della Costituzione: “per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio”.
Spetta dunque esclusivamente alla piena discrezionalità del Parlamento l’adozione di una normativa che riconosca le unioni civili, liberamente graduando i diritti che ad esse possano essere concessi. Ma nessuna norma, né interna né internazionale, impone la piena equiparazione delle unioni civili in genere, e quindi anche delle coppie dello stesso sesso, alle coppie coniugate.
Per quanto attiene alla legislazione sovranazionale la Corte ha inoltre dichiarato che l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (come, del resto, l’art. 12 della Carta europea dei diritti dell’uomo) nell’affermare il diritto di sposarsi rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio.

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