Le buone notizie dal mercato del lavoro, che ha visto una crescita degli occupati umbri nei primi nove mesi del 2023 maggiore di quella su base nazionale, vengono offuscate rovesciando la medaglia: nella regione i dipendenti privati continuano a guadagnare meno che in Italia. Un aspetto, questo, che per la sua rilevanza si è scelto di trattare ampiamente nell’ultima edizione della Relazione economico sociale realizzata da AUR, di prossima uscita, le cui Anticipazioni sono state presentate il 14 dicembre scorso in Conferenza stampa alla presenza della Presidente della Regione Donatella Tesei.
Che in Umbria si guadagni meno rispetto alla media del Paese non è un fatto nuovo, anzi, è ampiamente noto, è strutturale, radicato nei caratteri che hanno forgiato lo sviluppo della regione.
Come pure noto è il fatto che la retribuzione del lavoro alle dipendenze derivi dalla interazione di molte variabili: dalla qualifica, dal tipo di contratto (a termine o a tempo indeterminato, full o part-time), dalla durata (se a termine o stagionale e, comunque, dalle giornate retribuite), e poi dal genere, dall’età, dall’anzianità contributiva, dagli assetti produttivi – settori di appartenenza e soprattutto specializzazione all’interno della filiera – e, ancora, da elementi di tipo ambientale che coinvolgono il management e l’organizzazione del lavoro, il territorio di appartenenza, il livello di sviluppo dello stesso.
Dunque, se un primo confronto territoriale effettuato sul livello retributivo medio annuo calcolato sul totale dei lavoratori risente, da un lato, della forte eterogeneità delle singole situazioni, dall’altro si rivela un’operazione comunque efficace perché dà conto di quanto il territorio restituisce mediamente nell’anno a chi vi lavora nel privato. In estrema sintesi, nel 2022, in Umbria la retribuzione media dei lavoratori privati extra-agricoli è stata pari a 22.222 euro, a fronte dei 22.839 euro nazionali[i]
La composizione per qualifiche, schiacciate in Umbria verso il basso, influisce certamente sul dato complessivo. Tuttavia, un’analisi per singoli profili mostra una diffusa penalizzazione per la regione che, a partire dagli impiegati, aumenta al salire della scala gerarchica. Dunque, in Umbria impiegati, quadri, dirigenti guadagnano mediamente (anche molto) meno rispetto ai colleghi italiani di pari qualifica. Ma si tratta ancora di dati eterogenei al loro interno (per durata del periodo lavorato, tipo di contratto, etc.).
Un’analisi effettuata sui soli lavoratori standard (quelli impiegati a tempo indeterminato, full-time, retribuiti per l’intero anno) rivela un’accentuazione del divario territoriale. In questo sottoinsieme più omogeneo (che interessa i due quinti del totale dei lavoratori, in Umbria come in Italia) si scopre infatti che la retribuzione media annua nella regione è risultata pari a 30.872 euro e quella nazionale a 37.360 euro, per un delta complessivo secco di -17,4 per cento. Tale distanza, minima in corrispondenza degli apprendisti e massima tra i dirigenti, depurata dalla composizione per qualifiche, fa scendere il differenziale medio territoriale a -11,0 per cento. È una conferma che, ceteris paribus, in Umbria si guadagna comunque meno che in Italia.
Tale divario non sembrerebbe derivare dalla specializzazione settoriale: lo svantaggio retributivo umbro si ritrova in ciascuno dei macrosettori considerati nell’analisi. È massimo in corrispondenza dei servizi avanzati e negli “altri servizi” e anche nell’industria in senso stretto, ove la regione presenta una concentrazione di lavoro (oltre che di reddito prodotto) più elevata che in Italia. L’Umbria, più operaia e più industriale rispetto alla media del Paese, sconta ancora una specializzazione all’interno delle filiere a scarso presidio di segmenti qualificati e una organizzazione del lavoro troppo poco propensa a investire sulle alte qualifiche; d’altra parte, anche il terziario locale è molto meno strutturato, organizzato e a minor contenuto di innovazione rispetto a quello su scala nazionale, a discapito della produttività.
Se è vero che a deprimere verso il basso il livello medio annuo delle retribuzioni del lavoro standard interviene una struttura del lavoro a minore presenza di figure high profile (e questo vale in ciascun settore), in un’articolazione congiunta settori/qualifiche, che rileva gap retributivi diffusamente sfavorevoli per la regione rispetto al dato nazionale, gli scarti retributivi Umbria/Italia si amplificano salendo nella scala gerarchica. Divari particolarmente ampi si evidenziano tra i dirigenti e i quadri che operano in taluni servizi (anche tradizionali) e nelle costruzioni. All’opposto, l’unico vantaggio retributivo per la regione si presenta solo tra i quadri e i dirigenti che lavorano nel settore istruzione, sanità, assistenza sociale.
Quanto ai differenziali di genere, fenomeno particolarmente presente nel nostro Paese, si è scelto di effettuare il confronto sulle retribuzioni medie del lavoro standard a “giornata”, proprio per depurare il dato dalla minore presenza sul luogo di lavoro da parte delle donne. Si ricorda che la minore presenza femminile di giornate retribuite è (anche) conseguenza della maggiore diffusione del part-time che, in Umbria, nel 2022 ha interessato la metà di esse (49 per cento su base nazionale); invece, tra gli uomini, la quota di coloro che hanno avuto almeno un contratto a tempo parziale nell’anno non raggiunge il 18 per cento (21 per cento in Italia).
Le donne umbre guadagnano meno degli uomini umbri, ma anche meno delle donne italiane; tuttavia, i differenziali territoriali Umbria/Italia, trasversalmente diffusi per qualifiche, sono più elevati in corrispondenza della compagine maschile. In presenza di minimi retributivi definiti dai contratti nazionali che pongono un limite alla flessibilità verso il basso, la minore sperequazione di genere in Umbria è evidente conseguenza dell’appiattimento verso il basso delle retribuzioni maschili nella regione. Un fenomeno che non sembrerebbe attenuarsi, anzi: il confronto tra la situazione del 2022 con quella del 2019 mostra, accanto a una lieve attenuazione in Umbria del gender pay gap, un’accentuazione del divario territoriale rispetto all’Italia, sia totale sia per ciascun genere.
Dunque, la questione delle basse retribuzioni in Umbria non sembra si stia allentando.
Il fenomeno è strettamente legato al fattore organizzazione del lavoro e gestione delle risorse umane, che si riflette sui livelli medi complessivi retributivi (e l’Umbria continua a primeggiare nella graduatoria regionale della maggiore quota di lavoratori sovra istruiti) ed è fortemente interrelato, in un reciproco rapporto di causa-effetto, con il livello di innovazione incorporata negli assetti produttivi e, dunque, con la produttività del sistema. In altre parole, poiché a produttività elevate corrispondono salari e stipendi elevati e viceversa, alla fine è proprio una minore capacità media delle imprese locali nel generare maggiore valore aggiunto unitario a spiegare compensi lavorativi umbri strutturalmente inferiori a quelli nazionali. In questo legame a doppio filo, spesso ci si dimentica che l’investimento in lavoro qualificato – che ha naturalmente un costo – è una delle vie per elevare la produttività.
In più, osservando la dinamica congiunta di produttività, retribuzioni del lavoro dipendente e quota del margine operativo lordo sul valore aggiunto si scorge, oltre a un progressivo distanziamento umbro dalla media nazionale, un periodo in cui, pur in presenza di una remunerazione d’impresa relativamente superiore a quella nazionale, le retribuzioni dei dipendenti stazionavano comunque sempre al di sotto dei valori medi del Paese. Questo elemento lascia pensare a una endemica, scarsa attenzione a un congruo investimento nel capitale umano, più in generale a una insufficiente adozione di politiche aziendali basate su approcci innovativi capaci di gestire processi complessi che elevano la risorsa lavoro a fattore di crescita strategico per la competitività.
In sintesi, sembra lecito affermare che l’Umbria sconta una penalizzazione che molto ha a che fare con la traiettoria e i caratteri del suo sviluppo, con una prolungata, insufficiente propensione a investire nel capitale umano, con le fragilità economiche e finanziarie di quella parte del tessuto imprenditoriale locale più debole, meno capitalizzato e a minore contenuto di innovazione, dunque a più bassa produttività e profittabilità e a contenuta qualità gestionale e manageriale. Quando, invece, l’investimento più importante per aumentare la produttività è la qualità manageriale.[ii]
In questo quadro ha contato e sta contando molto anche l’assenza di grandi agglomerati urbani, acceleratori di innovazione e generatori di proiezioni esterne lunghe (…) luogo di contaminazioni e di innovazioni radicali, dove l’imprenditoria procede non tanto per lascito testamentario quanto si rigenera mediante progetti, sperimentazioni, fallimenti e nuovi tentativi.[iii] L’Unione Europea sta da tempo lavorando per contrastare i percorsi di divergenza tra i territori. Nella sola Italia, il progressivo indebolimento dei processi diffusivi dello sviluppo economico hanno accentuato la distanza tra le regioni periferiche e le aree che vantano centri urbani in grado di sviluppare forti economie di agglomerazione. Si tratta di un processo guidato dal cambiamento strutturale e dallo sviluppo delle attività di servizio avanzate, più frequentemente localizzate nelle aree urbane, che rimpiazzano le produzioni industriali a minor contenuto di conoscenze, interessate da processi di automazione pervasivi.[iv]