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Si tratta di un salume piuttosto povero che, dopo aver attraversato un periodo di decadenza, è oggi un presidio Slow Food
mazzafegate

Fra i vari prodotti di norcineria di un tempo vi è la “mazzafegata“, detta “salciccia matta” dai marchigiani o “sanbudello” dai toscani. Il prodotto si presenta dall’aspetto piuttosto scuro e dal gusto assai forte e piccante, molto apprezzato da chi ama la cucina ricca di sapore. 

Quanti hanno assaggiato, specie in passato, questa prelibatezza sanno che si tratta di un salume piuttosto povero che oggi, dopo aver attraversato un periodo di decadenza, tende a diventare una specialità da tutelare e un prodotto di nicchia, una testimonianza del vivere locale legata indissolubilmente al mondo contadino. 

Il suo nome ha un paio di spiegazioni: c’è chi propende per indicarne il contenuto  (“mezzo fegato”) oppure chi lo intende come “ammazza fegato” dal momento che si tratta di un prodotto piuttosto rustico e intenso. In realtà la mazzafegata è anche un concentrato di elementi nutritivi, soprattutto proteine, vitamina A e B e ferro, con una limitata presenza di grassi. 

La sua storia è legata all’usanza della macellazione del maiale per uso domestico. Nel periodo invernale, quando il lavoro nei campi diminuiva, era d’obbligo “ammazzare” il maiale dopo averlo adeguatamente ingrassato allo scopo nei mesi precedenti. Grazie al freddo asciutto della tramontana la sua carne poteva essere facilmente lavorata dal “norcino” di turno coadiuvato dagli uomini della casa, da vicini o parenti che procedevano a mettere i vari pezzi sotto sale o ad insaccarla.

Dalla sua sapiente lavorazione, oltre alle tipiche salsicce, si ricavavano anche le mazzafegate, una specie di “cugino povero”, a base di carni rosse (ricche di sangue) altrimenti non utilizzate. Queste erano non solo il fegato, ma anche il cuore, la milza, il polmone, alcuni pezzetti di grasso e altre carni avanzate da altre lavorazioni che venivano preparate in due versioni: con il sapore salato o con quello dolce. 

La mazzafegata era l’ultimo salume che si preparava dopo aver lavorato tutti gli altri, quando rimanevano sul tavolo di lavoro le ultime parti della macellazione, una sorta di ripulitura del banco, fedeli al proverbio che “del maiale non si butta nulla”. 

Il fegato tagliato a piccoli pezzi insieme alle altre frattaglie si macinava grossolanamente fino a ricavarne un impasto che veniva, poi, insaporito con fiori di finocchio, sale, pepe ed aglio e quindi insaccato nei budelli con lo stesso procedimento delle salsicce, legandole con lo spago e punzecchiandone la superficie con gli aghi per far uscire aria e sangue.

La cottura delle mazzafegate salate, solitamente, avveniva sulla brace a fuoco leggero o in padella con un filo d’olio da mangiare poi con pane casareccio, erbe di campo e un buon vino rosso.

Per la versione dolce il sale era sostituito dallo zucchero. Poi vi erano i pinoli e la cannella che, con l’aggiunta di buccia d’arancia o uva passa, acquistava un sapore particolarmente delicato. Ne derivava un salamino stagionato da due fino a sei o sette mesi, dal sapore molto particolare, da mangiare con pane casareccio. 

Fino a qualche decennio fa questo salume era molto diffuso in tutta l’Umbria ma, negli ultimi tempi, ha perso il gradimento del pubblico, ormai poco abituato ad apprezzare sapori così complessi e robusti. La produzione nelle macellerie, però, non si è mai fermata e oggi, nell’Alto Tevere, è tutelata da Slow Food, che ha inserito il mazzafegato tra i suoi presidi, per scongiurarne la scomparsa e farlo conoscere anche nel resto d’Italia. 

La Regione dell’Umbria ha inserito le mazzafegate all’interno dell’elenco dei 70 prodotti agroalimentari tradizionali definiti come “quei prodotti le cui metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura risultano documentalmente consolidate nel tempo in base ad usi locali”. 

Le attività di promozione stanno portando progressivamente alla riscoperta di questo prodotto che oggi risulta, dunque, nuovamente apprezzato e ricercato dagli amatori. 

Come per le salsicce le mazzafegate si possono consumare sia fresche che stagionate. In quest’ultimo caso si fanno prima asciugare per alcuni giorni in ambiente caldo e ventilato, poi si mettono a stagionare in cantina o in un locale umido e fresco dove possono rimanere anche sei-sette mesi senza alterarsi. La conservazione, un tempo, avveniva anche sotto strutto, sott’olio, nel grano o nella semola. 

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