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Una ricerca condotta a Torino, su oltre 7mila calciatori, ha ipotizzato che dopo gli anni '90 i metodi di manutenzione dei prati sportivi abbiano cessato di utilizzare prodotti che erano ritenuti responsabili della "malattia dei calciatori"
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I tanti genitori che, anche in Umbria, acconsentono all’avvio dei loro figli all’attività sportiva sui campi di calcio hanno un tarlo che insidia la loro tranquillità.
Fino ad ora, infatti, all’attività, soprattutto professionistica, di calciatore è stato associata una sigla:  Sla, che sta per Sclerosi Laterale Amiotrofica,  “la malattia dei calciatori”.

Ora sembra proprio che questa associazione non abbia più alcuna ragione di esistere, almeno secondo quanto ha dichiarato Adriano Chiò, direttore del Centro Sla del Dipartimento di neuroscienze dell’ospedale San Giovanni Battista-Molinette di Torino, che basa la sua affermazione su una ricerca condotta nel 2007, con la Procura di Torino, su 7.325 calciatori professionisti italiani, di cui circa 40 malati e che si sta ha ora aggiornando.

L’ipotesi sostenuta da Chiò è che il rischio di contrarre la malattia fosse stato collegato all’esposizione a pesticidi o prodotti chimici usati in agricoltura o per la manutenzione dei campi di calcio: “ Su questi aspetti ci sono dati abbastanza solidi".
Ma tali pratiche sarebbero cessate con gli anni ’90 e quindi le nuove generazioni possono stare tranquille su tale versante.

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