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Inaugurata a Todi, nell'ambito del Festival, l'esposizione su cinema e pittura "L'inquieta leggerezza della comicità"
mostra-chirico

Sabato 5 settembre, all’interno della Sala dell’Arengo, già Sala delle Pietre, il sindaco Ruggiano e l’Assessore alla Cultura Margherita Bergamini hanno inaugurato, alla presenza dell’artista e del critico Emidio De Albentiis, la mostra di Natino Chirico "L’inquieta leggerezza della comicità". Cinema e pittura nell’arte di Natino Chirico, uno degli eventi che nutrono il programma del Todi Arte Festival 2009, e che si potrà visitare fino al 20 settembre.
La pittura di Chirico è una figurazione di secondo grado: le sue sono immagini che hanno per soggetto altre immagini. Nel secolo della comunicazione, che ha disseminato i segni e moltiplicato le informazioni visive, la scelta figurativa di Chirico racconta una sorta di viaggio di andata e ritorno. La pittura che nel corso di tutto il Novecento ha ispirato il cinema prende a sua volta a soggetto i miti, gli oggetti, gli emblemi, le icone, i volti e i gesti del cinema. E alcuni dei quadri di Chirico sembrano addirittura negativi di pellicola cinematografica riscritti, ricalcati con l’esuberanza di colori fortemente materici, e di ispirazione pop. Era stato Andy Warhol del resto, il maestro della pop-art, a riprodurre per primo, in serie, le immagini pervasive dell’immaginario collettivo. La realtà non era più fatta di oggetti e persone: era la ripetizione ossessiva di marchi, prodotti, fotogrammi, e il sorriso di Marilyn diventava l’allegoria di una società e di un’epoca storica.
Tuttavia al di là dei colori aggressivi che danno spessore ai profili delle icone cinematografiche, l’intento di Chirico è opposto a quello di Warhol: non c’è dissacrazione e furia polemica, ma una riflessione lirica sulla vibrazione di malinconia che attraversa il corpo, il gesto, lo sguardo dell’attore e della ripetizione cinematografica, con una evidente predilezione per il comico.
Sul pannello che accoglie il visitatore, nel punto nevralgico dell’allestimento, campeggiano le sagome di don Chisciotte e di Sancho Panza, nere contro un orizzonte smaltato, bianco e oro, evidentemente ispirate all’interpretazione che del romanzo di Cervantes ha dato Salvadro Dalì. Come suggerisce Erri De Luca, le cui parole accompagnano il pannello, nel profilo di don Chisciotte si indovina già quello di Charlot. Lo scolapasta calcato come un elmo per battaglie immaginarie preannuncia la bombetta del personaggio chapliniano. Attraverso i secoli questi due eroi emaciati si parlano: entrambi sono perseguitati dalla pesantezza della razionalità, dall’inesorabilità del reale, rappresentata dalla sagoma tozza di Sancho, pesantemente schiacciata a terra, ben aderente al suolo come i piedi del poliziotto che nei film di Chaplin interrompe le corse funamboliche, leggerissime, di Charlot.
La maschera di Charlot è uno dei punti poeticamente più alti in cui la commedia e la tragedia si incontrano. Charlot porta sul volto la lacrima che solca eternamente la guancia del clown. Charlot è stato capace di riassumere in se stesso, attraverso l’utilizzo del proprio corpo, le tensioni e i conflitti che hanno attraversato il Novecento. E’ stato il diseredato, il povero, l’oppresso, lo sfruttato, il lavoratore alienato e stritolato dal sistema produttivo, il sognatore irriducibile, l’evaso, il fuggiasco, l’uomo incompatibile con ogni ordine, e perfino l’ebreo, che incarna la summa novecentesca di tutte le persecuzioni. E a tutte le persecuzioni Charlot, sporgendosi dai quadri di Chirico, oppone la sua risata, offerta al mondo con la sincerità dell’innocenza, oppone il movimento del suo bastone, che ruota e si piega inverosimilmente senza rompersi, e oppone le sue grosse scarpe, smisurate e stranamente reali, sempre pronte a calpestare la strada che dopo ogni disfatta attende il clochard: come don Chisciotte Charlot ogni volta riprende fiduciosamente il cammino verso l’orizzonte. 
La stessa potente ambivalenza di Charlot Chirico scorge in tutti gli altri miti cinematografici che finiscono sulla sua tela. A cominciare da Ettore Petrolini, che intrattiene con Charlot un dialogo privilegiato. La sua maschera dolente e insofferente dissacra con la sola espressione la piccola Italia patria di tutti i conformismi.
Un’indolenza simile, un’analoga riflessione amara e filosoficamente sorridente sull’esistenza caratterizza il passo curvo di Fellini, bloccato da Chirico e infinitamente ripetuto come a suggerire l’andirivieni pensoso del regista sul set.
L’incertezza del senso è il filo rosso che tiene insieme i fotogrammi pittorici di Chirico: il primissimo piano di un attore, che oltre a enfatizzare la malinconia dello sguardo raddoppia la citazione scegliendo un’inquadratura tipicamente cinematografica. E l’urlo e la posa di Anna Magnani nel finale di Roma città aperta, e lo sguardo del suo intenso primo piano (purtroppo sacrificato dall’allestimento, che lo costringe in penombra) in cui si concentra ancora la commistione arcaica di tragedia e commedia che è nel sangue antico del popolo romano, e alle radici di una lunghissima tradizione culturale.

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