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Per chiamarsi "aranciate" le bevande dovranno continuare ad avere almeno il 12% di succo e dopo quasi cinquanta'anni si comincia a pensare di aumentare quella percentuale
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Non tutto il mal vien per nuocere ed il dibattito che si era aperto in Italia sulle bevande col nome di frutta, ma nessun succo nelle loro composizioni, potrebbe aver portato a due risultati positivi per i consumatori.
In primo luogo, c’è da registrare che alla fine la Camera ha detto no alle cosidette «aranciate senz’arancia» ammesse dalla normativa europea e che stavano arrivando anche in Italia con la Legge Comunitaria 2008, votata  e tornata quindi al Senato.
Lo stop di Montecitorio segna la vittoria del «partito delle arance», un partito trasversale che è uscito allo scoperto circa un mese fa quando il Senato, nel licenziare il testo del ddl, all’art.21 abrogava l’art.1 della legge 286/1961 che impone, alle bibite dai nomi di fantasia, una percentuale di succo d’agrume «non inferiore al 12%» per le bibite colorate e aromatizzate a quell’agrume: una sorta di garanzia di un «minimo sindacale» di vitamina C per tutti i consumatori italiani.
Le organizzazioni agricole avevano subito sottolineto che senza quel 12% obbligatorio gli agrumicoltori avrebbero avuto un danno calcolato in 120 milioni di chili di arance invendute. Dopo sono intervenute le organizzazioni dei consumatori che si domandavano «cui prodest» una norma in totale contraddizione con tutte le campagne governative ed europee per aumentare fra i giovani il consumo di frutta.
Anche gli esercenti della Fipe (Bar e Ristoranti) non vedevano di buon occhio un calo degli standard di qualità delle bibite da loro somministrate.
Sul fronte politico le opposizioni stigmatizzavano il blitz in Senato parlando di «truffa delle false arance voluta e votata dalla maggioranza con parere favorevole del governo» visto che l’emendamento che aboliva la norma italiana era stato presentato da un senatore del Pdl, Francesco Casoli.
Scoppiato il caso, nella stessa maggioranza si sono scoperti molti a non apprezzare le «aranciate senz’arancia». Fra i primi il Ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali, Luca Zaia, che ha assicurato il suo impegno per salvare il 12% di succo d’agrume. Poi è toccato al Ministro delle Politiche europee, Andrea Ronchi, ad assicurare che la Camera avrebbe senz’altro «soppresso» l’articolo incriminato.
Da Assobibe (l’associazione che rappresenta le industrie delle bevande analcoliche), si sosteneva invece che abolire la legge del 1961 «avrebbe aiutato gli agrumicoltori». Il motivo è che, in realtà, sulla base di una legge ancora più vecchia (n.178 del 1958) «chi usa almeno il 12% di succo di arancia nelle sue bibite, può chiamarle ‘aranciata’» e non deve usare nomi di fantasia.
Risultato non certo da buttare, se alle parole seguiranno i fatti è che Confagricoltura ha già annunciato che «si attiverà perchè venga aumentato il contenuto minimo di succo di arancia nelle bevande» e la San Pellegrino ha deciso di aumentare del 30% la percentuale di succo d’arancia contenuto nelle sue aranciate, passando dal 12 a quasi il 16%.
Non è molto ma è già qualcosa se si considerano i quintali di frutta che vanno al macero per eccessiva produzione. Percentuali ben più alte sono richieste per le bibite che si fregiano della denominazione di «nettare» dove la legge impone il 50% di succo e non devono avere coloranti, mentre per poter denominare una bibita «succo d’arancia» deve essere composta al 100% di arancia.

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