Mentre quel giorno Umberto di Savoia emanava da Napoli il Decreto-Legge Luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151 – con il quale stabiliva (Art.1) che “Dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato” – il popolo italiano viveva giorni terribili.
« Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini. », disse Piero Calamendrei
Erano già cominciate le rappresaglie delle forze tedesche in tutta l’Italia centrale. Anche dalle campagne dell’Umbria giungevano notizie atroci e la gente era impaurita.
Del clima di quei giorni e delle esperienze vissute in quasi tutte le famiglie contadine dell’Umbria, è testimonianza importante quella contenuta nel racconto di Rina Gaggia, una quasi ottantaseienne residente a Marsciano di cui riproponiamo ampi stralci della testimonianza che ci ha inviato.
Il 19 aprile 1945, mentre gli Alleati dilagavano nella valle del Po, i partigiani su ordine del CLN diedero il via all’insurrezione generale.
Dalle montagne, i partigiani confluirono verso i centri urbani del Nord Italia, occupando fabbriche, prefetture e caserme.
Nelle fabbriche occupate venne dato l’ordine di proteggere i macchinari dalla distruzione. Le sedi dei quotidiani furono usate per stampare i giornali clandestini dei partiti che componevano il CLN.
Milano e Torino furono liberate il 25 aprile: questa data è stata assunta quale giornata simbolica della liberazione di tutta l’Italia dal regime nazifascista e, denominata Festa della Liberazione, viene commemorata annualmente in tutte le città italiane.
La guerra raccontata da nonna Rina
Il 7 novembre del 1923, nasceva a Marsciano Rina Gaggia.
Tra il 1939 e il 1945, mentre in Italia imperversava la seconda guerra mondiale, tra distruzione, bombe, violenze e fucilazioni, nel piccolo paesino di Baccano, la vita scorreva tranquilla.
Le giornate, erano contraddistinte dalla fatica del lavoro e a volte, si riusciva a raggranellare solo un pezzo di pane da poter mettere sotto i denti.
Vivevo in una famiglia molto numerosa composta da ben 15 persone come del resto gran parte degli altri nuclei famigliari dell’epoca..
Il 25 giugno del 1944 (quando avevo 21 anni), la giornata sembrava scorrere nella normalità tra le solite faccende da fare; lavare, pascolare, accudire il bestiame. In quel periodo era iniziata anche la mietitura, che di solito si protraeva per circa 15 giorni, in quanto il lavoro veniva fatto manualmente, solo con l’ausilio della falce. Quella mattina, ricordo che eravamo otto persone intente alla mietitura; c’era chi parlava del più e del meno, chi scherzava, chi beveva. Il sudore provocato dalla fatica scendeva sulla fronte e sulle braccia.
Intorno alle 11,30 circa le nostre chiacchiere si interruppero all’improvviso; si sentirono dei grandi fischi prolungati che partivano da lontano e poi, dei grandi boati.
Le bombe cadevano accanto ai nostri piedi, c’era chi urlava a mozzafiato dicendo: “ via scappiamo arrivano le bombe”, chi strillava e chi fuggiva a destra o a sinistra madido di sudore che, il grande spavento aveva aumentato a dismisura. Per la prima volta conobbi veramente il volto della paura.
Correndo a gambe levate, arrivammo nei pressi di un fosso e per salvare la pelle ci gettammo tutti lì dentro, mentre intorno a noi, ancora erano ben udibili i fischi lunghi e assordanti che precedevano lo scoppio delle bombe. In quel luogo, sopraffatti dal terrore, non avevamo nemmeno il coraggio di parlare tra noi; dalle nostre labbra uscivano solo preghiere.
Restammo lì dentro per circa 2 ore, ad un certo punto, mio zio disse: ”forse è tutto finito”. Ancora avvolti dalla paura che ci faceva tremare le gambe, fiduciosi delle parole dello zio, uscimmo da quel rifugio. Sfiancati dalla fatica del lavoro, turbati dalla paura, e logorati dalla fame, corremmo verso casa.
Arrivati a casa, capimmo che non era finito un bel niente, anzi, a Baccano era arrivata la guerra, annunciata dal passaggio del fronte. Alle 14 la nostra casa era già invasa da 30 tedeschi, i quali, con quella parlata mista tra italiano e tedesco dicevano: “ avvicinatevi, venite, venite non vi faremo del male, venite”.
Capimmo che avevano tanta fame perché, autonomamente avevano messo sul fuoco la nostra pentola più grande, che noi utilizzavamo ogni volta che arrivavano ospiti a casa. La cosa più triste che vidi in quel momento fu l’uccisione da parte loro di una nostra pecora e un nostro vitello davanti ai nostri occhi. Cucinarono tutto e mangiarono come se fosse un mese che non mettevano carne sotto i denti.
Noi stavamo tutti lì, in disparte, sempre attenti ad ogni loro movimento, terrorizzati dal fatto che, potevano ucciderci in qualunque momento nello stesso modo dei nostri animali.
Il primo problema sorse quando fini l’acqua potabile. Presa dal coraggio, di mia spontanea volontà, mi offrii di andare a prenderla alla fonte con la brocca.
Un tedesco mi disse” ti accompagno, vengo mi, vengo mi” allora ebbi una grande paura e pensai: adesso che faccio? Fortunatamente mio fratello sentì e intervenne subito con irruenza dicendogli:” no!!! ce la fa da sola”; allora il tedesco si tirò indietro ed io tirai un sospiro di sollievo. Mentre andavo a prendere l’acqua nella mia testa rimbombavano le parole“ vengo mi vengo mi” terrorizzandomi ad ogni passo di più. Ritornata dalla fonte, i tedeschi bevvero tutta l’acqua ringraziandomi.
Appena consumato il pranzo la truppa prese le armi, gli elmetti e ripartì per le colline umbre, lasciandoci tra la paura che non ci aveva abbandonato mai coscienti che era andata veramente bene. Ancora oggi me lo ricordo come fosse ieri.
Tentando di tornare alla normalità ci preparammo per la notte che stava sopraggiungendo e non si preannunciava facile. Decidemmo di passarla dentro la stalla degli animali. In quel luogo si rifugiarono quattro famiglie, complessivamente 35 persone.
Eravamo tutti raccolti in silenzio con un occhio aperto e uno chiuso quando ad un tratto, alle 2,30 di notte, sentimmo dei rumori strani e capimmo, immediatamente, che erano arrivate altre truppe di tedeschi. Non erano in trenta come nel pomeriggio, ma forse 100 o 200. Perlustrarono tutta la casa e noi, in quel frattempo, iniziammo a recitare il Santo rosario e a pregare tutti insieme, sperando di essere salvati dalla ferocia di quei soldati.
Sentimmo tanto chiasso, molte chiacchiere e tanti spari; il destino volle che i tedeschi, vedendo che non c’era nessuno in casa non entrarono nella stalla delle bestie e se n’andarono.
Benché le truppe fossero passate senza lasciare traccia, nella notte, gli aerei e i carrarmati, continuavano a lanciare bombe sopra le nostre case, distruggendo tutto ciò che trovavano. Riuscimmo ad arrivare all’alba sani e salvi e, ancora oggi, a 60 anni di distanza e alla veneranda età di 86 anni, posso raccontare ai miei nipoti le sofferenze di quel periodo.