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Il problema più grave non è la crisi finanziaria ma quella climatica e alimentare. E se non ci saranno risposte democratiche finiranno per imporsi quelle autoritarie.

Secondo la letteratura medica, normalmente le persone coinvolte da una diagnosi terminale attraversano diversi fasi successive: diniego, depressione, collera, discussione, accettazione. In Italia il capo del governo afferma che la soluzione alla crisi è “l’ottimismo”, un’analisi arricchita da Tremonti: “Qui si sta meglio che altrove. E ne usciremo prima e meglio”. Poiché l’Italia non vive in autarchia, conviene verificare le diagnosi sullo stato di salute del capitalismo, di tutto il capitalismo, pure di quello italiano. E, poiché sembra che in Italia ci sia qualcuno che nulla ha saputo del crollo delle borse, del collasso dei sistemi finanziari e del crollo delle aziende automotrici, conviene ricordare quelle rilasciate da diversi “medici” chiamati al capezzale del malato.

Per la Commissione Europea l’UE deve far fronte a una “profonda e prolungata recessione”. Nel 2009 l’economia dell’area diminuirà dell’1,8%, con la perdita di 3,5 milioni di posti di lavoro (David Jolly: “Europe is pushing for control of banks”, Herald Tribune, 20 gennaio 2009). In Francia si sono registrate 46.000 bancarotte di aziende nel 2008 (Courrier Internacional, 15 gennaio 2009). Malgrado gli aiuti finanziari, la Royal Bank of Scotland ha perso il 61% del suo capitale in un anno, 31 miliardi di euro, coinvolgendo nel suo crollo altre entità bancarie, persino tedesche (Walter Oppenheimer: “Las pérdidas de RBS hunden la banca británica pese al nuevo plan de rescate”; El País, 20 gennaio 2009). La crisi finanziaria ha costretto le banche a rivedere le loro strategie per installarsi in Cina (Le Monde, 16 gennaio 2009)… Salvo i geni e/o azzeccagarbugli nostrani, i pareri medici coincidono: la situazione è grave e il malato non si rimetterà in moto senza applicare una terapia intensiva. Ma è possibile che neppure questa terapia funzioni: “Il modello svedese è la migliore speranza per le banche occidentali… La strategia occidentale per superare la crisi bancaria può essere comparata con la politica giapponese negli anni ’90, che non ha funzionato”. Traduzione: l’inservibile modello giapponese e occidentale consiste nel continuare a buttare via gli aiuti finanziari in un pozzo senza fondo. Il modello svedese è la nazionalizzazione delle banche (Christopher Wood, Financial Times 20 gennaio 2009). Lo slogan è: “Socialism saves capitalism”. “Domanda: cosa succede se perdi ingenti quantità di denaro di altre persone? Risposta: ricevi un gran regalo del Governo federale (ma il presidente dice cose molto dure su di te prima di sganciare la pasta). Sono ingiusto? Me l’auguro. Ma, ora, è quello che sta succedendo. …Parlo dei piani dell’Amministrazione Obama per salvare il sistema bancario, piani che prendono la forma di una esercitazione classica di socialismo amaro: i contribuenti pagano la fattura se va male, gli azionisti e i manager ricevono i benefici se va bene” (Paul Krugman, “Rescates financieros para incompetentes”, Sin Permiso 9 febbraio 2009).

Basta negare la crisi per farla scomparire?
Sarkozy dixit: “La crisi del capitalismo finanziario non è la crisi del capitalismo (…) Non porta alla distruzione del capitalismo, ma alla sua moralizzazione” (Le Monde 15 gennaio 2009, p. 2). Carla ci ha raccontato quanto aveva imparato dal presidente. Non avendo potuto imparare altrettanto, o avendo qualche dubbio sull’esistenza di un capitalismo morale, o non finanziario, sulla stessa pagina Hervé Kempf scopriva “la via del post-capitalismo” e Hubert Védrine il mondo “post-americano”. Due modi per nominare il funerale senza nominare il defunto (Hervé Kempf: “Le chemin du postcapitalisme”,15 gennaio 2009).

Era possibile prevedere la crisi?
Non solo. Si poteva anche capire che il capitalismo è la crisi stessa poiché le crisi cicliche sono il prodotto:
1 – dell’anarchia della produzione;
2 – in virtù della quale l’offerta supera la domanda relativa (e cioè la domanda di quelli che, oltre al bisogno, dispongono del denaro per soddisfarla);
3 – la mancanza di domanda determina un eccedente relativo de produzione invendibile;
4 – determina, inoltre, la bancarotta dei capitalisti più deboli.
Scrive l’economista Jean-Paul Fitoussi, consigliere economico di Sarkozy: “La crisi finanziaria non è altro che il sintomo di una crisi latente che esisteva fin dagli anni ’80, ossia di una crisi di distribuzione dei redditi. Per mantenere i livelli di consumo è stato necessario che famiglie e Stati s’indebitassero. L’indebitamento era una benedizione per il sistema finanziario, che ha concesso prestiti a chi non poteva consumare di più. A quel punto lo squilibrio finanziario si è rivelato: non si può prestare a quelli che non possono pagare” (Le Monde, 15 gennaio 2009).

Chi ci guadagna?
La crisi intensifica la concentrazione del capitale, in soldoni in circa un migliaio di multinazionali e 250.000 multimiliardari che, con l’aiuto degli Stati e degli apparati politici e finanziari, comprano le aziende in crisi a prezzo di svendita e scaricano le perdite sulla popolazione. In Italia, basterà ricordare il recente caso Alitalia. All’estero, si può ricordare che la Banca JP Morgan Chase si è presa la Bear Stearns, ha liquidato Lehman Brothers e acquistato Washington Mutual, la maggiore cassa di risparmio statunitense, valutata 140 miliardi di dollari. Che i finanzieri colpevoli del collasso si sono messi in tasca, finora, 750.000 miliardi in aiuti finanziari, senza ridare nemmeno un dollaro ai truffati. Che, dall’ottobre 2008, la Gran Bretagna ha concesso 471.000 miliardi di sterline per aiutare le sue banche, senza risolvere nulla (“U.K. boost aid to banks as RBS reveals enormous loss”, The Wall Street Journal, 20 gennaio 2009). Ma Sarkozy ha sgridato i banchieri francesi: devono rinunciare ai loro “bonus” nel 2009 per compensare il sostegno finanziario dello Stato; essere “ragionevoli” nel momento di distribuire i dividendi. Naturalmente, non si abbandoneranno le case automobilistiche (Le Figaro, 16 gennaio 2009).

Chi ci perde?
David Ricardo e Carlo Marx hanno dimostrato da oltre un secolo che ogni valore economico è tempo di lavoro umano: la crisi punisce i 6,5 miliardi di abitanti della Terra che creano ogni ricchezza con il loro lavoro. Di questi, 3 miliardi erano già poveri e 1,500 miserabili. Per loro:
1 – diminuisce la produzione: nella UE la produzione industriale è calata del 7,7% negli ultimi dodici mesi e la recessione domina le quattro maggiori economie della regione, Germania, Francia, Italia e Spagna (Claude Guelaud: “Les difficultes économiques s´aggravent dans la zone euro”, Le Monde, 16 gennaio 2009);
2 – s’incrementa la disoccupazione, peggiorano le condizioni di lavoro e di sfruttamento. Per saperlo, non c’era bisogno di aspettare Obama. Ad esempio, già il governo di George W. Bush aveva riportato la perdita di 533.000 posti di lavoro nel solo novembre 2008. In Europa ci sono circa 17 milioni di disoccupati e, stando alle previsioni, nel 2009 si perderanno altri 3,5 milioni di posti di lavoro e il numero di disoccupati supererà i 20 milioni. Secondo una stima della Organizzazione Internazionale del Lavoro, la disoccupazione nel mondo potrebbe aumentare tra 18 e 30 milioni nel 2009 ma, se la situazione continua a deteriorarsi, può superare i 50 milioni e circa 200 milioni di lavoratori potrebbero finire nella povertà estrema. I lavoratori poveri – che non guadagnano per mantenersi – possono arrivare a 1.400 milioni, il 45% del totale dei lavoratori nel mondo. Inoltre, nel 2009 la percentuale di posti di lavoro vulnerabili potrebbe aumentare fino al 53% della popolazione occupata (BIT, “Tendencias Mundiales del Empleo 2009”, Ginevra febbraio 2009);
3 – diminuisce il salario reale direttamente e per il tasso di inflazione. Sul calo dei salari non c’è bisogno di argomentare. Sull’inflazione, complessivamente il tasso può non aumentare, ma aumentano tutte le voci legate ai consumi popolari: il cibo, i fitti, il trasporto, i servizi di base… La spiegazione è semplice: il tasso generale rimane immutato perché diminuiscono le voci legate al consumo dei ricchi, ad esempio per l’acquisto dei macchinari;
4 – s’aggravano le misure contro i lavoratori immigrati e, complice l’irresponsabilità della politica, il clima culturale attorno a loro. Nemmeno su questo c’è bisogno di argomentare;
5 – aumentano i prezzi e le tasse indispensabili per pagare gli aiuti finanziari. Non basta rimproverare il governo perché le tasse non diminuiscono, ma ciò mal si concilia con l’idea che “esiste un accordo sostanziale sui principi dell’economia” o, come direbbe Rutelli, “che il problema è solo quello di chi amministra il condominio”.

Dove si perde?
La crisi diminuisce il consumo e la domanda. Da una parte, ciò l’accentua. Dall’altra apre la possibilità di altre prospettive (ovvio, se gli attori politici non si occupano d’altro, ad esempio del proprio ombellico o della propria poltrona). La restrizione del consumo colpisce tutti i settori ma, soprattutto, i beni più indispensabili: alimenti, casa, riscaldamento …, aprendo le porte a situazioni di ingovernabilità. Queste, malgrado qui arrivino pochi echi, si moltiplicano soprattutto in periferia. I media, come accadde nel Ma-dagascar, le interpretano come scontri tra un cantante e uno speculatore (La Repubblica, 8 febbraio 2009).

Lo Stato risolverà la crisi?
Per aiutare un capitalismo incapace di funzionare, gli Stati dovrebbero:
a – aumentare le tasse, ma ciò è problematico perché i lavoratori non ce la fanno più e i grandi capitali le evadono impunemente. Come ripiego, i legislatori statunitensi hanno deciso di aumentare le imposte sull’alcol e il tabacco (David Kenmodel: “U.S. state lawmakers turn to alcohol levies”, The Wall Street Journal, 20 gennaio 2009). Per non correre rischi, i consorzi del Regno Unito collocano i loro fondi nelle strutture finanziarie offshore, per immunizzarli contro eventuali modifiche della legislazione fiscale (Dawn Cowie: “U.K. firms turn to ‘cashboxes’ for capital”, The Wall Street Journal, 20 gennaio 2009). Sempre gli Stati potrebbero:
b – aumentare il deficit, pura teoria se si considera che alla fine del 2008 gli Usa avevano un disavanzo di 328.000 miliardi e la Commissione Economica della UE avvertiva che 12 paesi europei un deficit fiscale eccessivo: Irlanda -13%, Gran Bretagna -9,6%; Spagna -6,2% (El País, 20 gennaio 2009);
c – svalutare stampando carta moneta in modo inorganico. Misura inutile nel contesto di una crisi globale;
d – incrementare il debito pubblico, soluzione piuttosto complicata per paesi come gli Usa, dove ammonta al 65,5% del Pil, o l’Italia, 107% del Pil;
e – sviluppare nuove tecnologie “verdi”. Ma, oltre a qualsiasi altra considerazione, ciò richiede necessariamente l’aiuto dello Stato pagato dai contribuenti come accadrà, ad esempio, per il progettato sussidio di 100 miliardi di dollari alla Silicon Valley (“Clean Technology”, Financial Times, 15 gennaio 2009), con quelli destinati all’industria automobilistica o allo sviluppo dei “combustibili verdi”. Eccetera.

Solo una stretta finanziaria?
Si continua a parlare di finanze, ma la crisi è assai più grave perché, incamminandosi verso il suo collasso, il capitalismo ha già messo in crisi i sistemi ecologico, sociale, economico, politico e culturale del mondo. Per quanto riguarda l’ecologia, ad esempio, ha dato un colpo feroce alla biodiversità, ha accentuato l’effetto serra e si avvicina all’esaurimento degli idrocarburi.
Da queste parti, per la stupefacente “ricchezza” del dibattito possono sembrare affermazioni estremistiche. Ma, secondo Wouter Bos, attuale ministro olandese delle finanze, “la crisi finanziaria non è il problema più grave al quale deve far fronte il capitalismo. La crisi climatica diventerà progressivamente più importante, mentre la crisi alimentare persiste. Tutti e due queste crisi sono più fondamentali della sopravvivenza nel tempo del capitalismo stesso” (Le Monde 15 gennaio 2009). Si potrebbe aggiungere, non è una consolazione, che ognuno ha i ministri delle finanze che si merita.

E mo’?
Il capitalismo reagisce tentando di portare il mondo con sé alla propria sepoltura.
Hubert Védrine afferma che dopo il crollo dell’Urss, l’Occidente “si considerava proprietario del mondo. Dall’Olimpo, decideva chi punire, chi bombardare” (Corine Lesnes: “Hubert Vedrine e l´Amerique de Barack Obama”, Le Monde, 15 gennaio 2009).
Essendo questo ancora l’atteggiamento delle classi dirigenti, le possibilità sono due: la prima è quella di una trasformazione radicale. Presuppone un’alternativa politica e, conviene aggiungere, allo stato delle cose difficilmente sarà una trasformazione tranquilla e ordinata; la seconda è quella di un nuovo conflitto mondiale che – pur potendo assumere forme diverse – avrà come posta in gioco la sopravvivenza stessa dell’umanità. Ai primi del ‘900, Rosa Luxemburg affermò che l’alternativa era tra socialismo o barbarie. Ammonimento che, stando ai dati, sembra quanto mai valido. La sfida centrale è immaginare una società diversa e il primo asse di lavoro si lega ai limiti del pianeta. Evidentemente, la costruzione di un progetto di società alternativa all’ordine distruttore del capitalismo deve rappresentare una idea di civiltà alternativa dal punto di vista della produzione, ma passa per un immaginario su ciò che è ricchezza e buona vita radicalmente diverso da quello propagandato dai canoni di consumo depredatori oggi egemonici. Non è una questione accademica: se non si trovano risposte dall’anti-capitalismo, se non ci sono risposte alternative democratiche alla crisi ambientale planetaria, finiranno per imporsi risposte profondamente autoritarie applicate all’interno di una società di crescente apartheid globale. In questo senso, i grandi muri di contenimento e la repressione sistematica dei rifugiati economici che oggi possiamo osservare, non sono che l’inizio di questo processo.

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