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In Afganistan gli alti comandi militari non sembrano aver gradito la decisione di due piloti di non rispondere al fuoco, per la presenza di numerosi civili, così come previsto dalle regole

I militari nelle strade, al di là dell’impressione, di alcuni, di un paese in cui la democrazia è in pericolo, sembrano accettati dalle popolazioni, anche se mancano eccessivi entusiasmi, consapevoli della loro funzione simbolica.
Tuttavia in molti qualche preoccupazione la desta lo sfoggio di armi.
Ci si chiede come in situazioni di crisi gli stessi militari useranno il loro potenziale di fuoco in aree, come quelle cittadine, affollate di innocenti civili.
Da quello che è accaduto il 9 luglio nei cieli afgani di Shiwashan, sette chilometri da Herat, si potrebbe concludere che il senso di responsabilità dei militari italiani, per addestramento o per un innato senso civico è molto alto, tanto da sfidare anche la riprovazione di alti comandi.

Domenico Leggiero, responsabile del comparto Difesa dell’Osservatorio militare, noto per le sue battaglie a favore dei militari affetti da patologie legate all’esposizione all’uranio impoverito in teatri di guerra, è in grado di riportare, secondo “peace report”, la versione dei due piloti di elicottero, protagonisti, nella notte del 9 luglio, di una lucida decisione.
Secondo la versione dei protagonisti – riportata da Leggiero – quella sera l’intervento riguardò la copertura dell’elicottero medico che evacuò due soldati italiani.
Ma dopo l’imboscata, avvenuta all’estrema periferia di Herat, e durante l’operazione di evacuazione medica dei nostri feriti – il tenente Gabriele Rame e l’aviere Francesco Manco – da un palazzo abitato della zona vennero esplosi numerosi colpi di armi leggere. Il timone di coda dell’eliambulanza venne ‘sviolinato’, graffiato, senza far danni.

È proprio a quel punto che i due piloti italiani, ognuno alla cloche di un Mangusta, avrebbero valutato che rispondere al fuoco con i potenti cannoncini rotanti da 20 millimetri avrebbe significato distruggere l’edificio, provocando sicuramente pesanti perdite tra i civili.
Quindi hanno optato per una manovra di disimpegno e hanno fatto ritorno alla base.
Una decisione, quella di non rispondere al fuoco, che era in accordo con le regole d’ingaggio di una missione ufficialmente di pace, non di guerra, che consentono di sparare se attaccati, ma solo se c’è la ragionevole certezza di non provocare vittime civili.

Ma i comandi militari non sembra abbiano molto gradito.
I due piloti, dopo aver passato alcuni giorni all’ospedale militare romano del Celio, per depistare il reale motivo dell’allontanamento dall’Afganistan, con la diagnosi di sindrome da stress post-traumatico, sono stati rispediti nella base del 7° Reggimento Aviazione ‘Vega’ dell’Esercito, a Rimini.
Al momento contro i due piloti non è stata avviata alcuna procedura disciplinare, ma c’è il rischio che la “punizione” sul lato professionale possa far propendere altri, in occasioni diverse, a comportamenti diversi giusto per non avere guai con le gerarchie.

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