Condividi su facebook
Condividi su twitter
Intervista al preside del Liceo di Todi ormai sulla soglia della pensione: il dirigente traccia un bilancio della sua carriera ed invita il suo successore, Sergio Guarente, a dare segnali di discontinuità
tofanetti-ruggiano_th

Abbiamo incontrato il professor Francesco Tofanetti nella sua seconda casa, l’ufficio di preside nel complesso liceale di San Fortunato.
Tranquillo, aria serena, il telefono che squilla di continuo: sono i ragazzi che hanno concluso l’esame di Stato e che chiamano per conoscere l’esito. Anche se la scuola è chiusa, continua ad esserci fermento.
Tofanetti è stato dirigente scolastico dal 1982, dopo aver svolto la professione di insegnante già dal secondo anno di Università. La prima scuola in cui ha insegnato dopo la laurea è stata la media di Massa Martana: “i figli di alcuni degli alunni di allora sono usciti proprio quest’anno”, sottolinea scherzando.
Poi il concorso per diventare preside nel 1979; nel 1985 il trasferimento al Liceo Scientifico di Todi, nel 1993 al Classico. Un curriculum vitae “pieno” di scuola, quindi. Ma da settembre sarà in pensione.

Come si sente in questo momento?
“Bene. Non ero favorevolissimo a lasciare il lavoro ma mi sono reso conto che il cambiamento è necessario per il bene della scuola. Quando qualcuno comincia ad avere bisogno della scuola, significa che si è rovesciato il rapporto: è la scuola che deve aver bisogno di noi. Servono energie nuove, entusiasmo, persone che abbiano fatto esperienze diverse. Vengo da una vecchia scuola, quella degli anni ’60-’70, e da allora il mondo è cambiato. Una persona più giovane potrebbe fare meglio di me perché più vicina alla nostra realtà”.

Visto che la sua carriera scolastica copre un arco di tempo vasto, ci interessa conoscere la sua opinione sul cambiamento della scuola, gli alunni, i docenti e soprattutto la figura del preside.
“Gli studenti non sono cambiati: se si insegna con serietà e autorevolezza, rispondono ancora. Non mi sono mai strappato i capelli per la gioventù di oggi. È la scuola che è radicalmente cambiata. Da una scuola che era essenzialmente elitaria ci ritroviamo in una scuola di massa. Grazie a Dio non c’è più la divisione tra chi faceva il Liceo, che sarebbe diventato il dirigente della società, e i poveri cani che dovevano andare a lavorare. Ogni dilatazione, però, produce un abbassamento di qualità. Ci si è abituati all’idea che la scuola non è più una conquista, ma un diritto al voto: è aumentata la difficoltà di rapporto con le famiglie e il carico amministrativo. Da qui, la trasformazione della figura del preside. Il preside una volta era l’insegnante bravo che aveva pubblicazioni, una figura di prestigio. Oggi diventa preside chi sa fare meglio amministrazione: un bravo dirigente, non uno studioso. Si è perso in autorevolezza e si è dato spazio alla componente deteriore della scuola: il burocraticismo. È quello che, purtroppo, pensano tanti insegnanti, che la scuola sia amministrazione e che si deve tirare avanti. Ma non è così”.

Lei ha cercato comunque di salvaguardare anche altri aspetti. Ci riferiamo, ad esempio, alla promozione di attività, il teatro ad esempio…
“Dipende dalla concezione della scuola che si ha. Ho sempre pensato, forse per l’educazione degli anni ’50, che la scuola non sia solo un luogo di trasmissione di cultura, ma un centro di produzione culturale. Il Liceo deve essere un punto di riferimento anche per la comunità, dove si fanno concerti, dove gli studenti sanno che possono tornare il pomeriggio. Si è seguita questa intenzione anche quando è stato ristrutturato l’edificio, trasformando, ad esempio, il corridoio al piano superiore in una zona di vita e in una galleria d’arte moderna. Così i ragazzi si abituano a vivere in un ambiente dove la buona cultura sta sempre sotto i loro occhi”.

Un episodio che ricorda in maniera particolare.
“Qui veramente ho difficoltà a rispondere. Mi permetterei di ricordare il momento più difficile che ha vissuto la scuola, il suicidio di Manuelo Annunziata. È un momento che resterà scolpito in tutte le persone presenti allora. Quando muore un allievo, la scuola si ripiega su se stessa, si interroga, ci sentiamo tutti in colpa. Manuelo era una persona aperta, solare, forse non studiava tanto, forse il suo voleva essere solo un atto dimostrativo, ma ci ha condizionato fortemente perché in fondo i professori hanno tutto l’interesse a promuovere, non a bocciare. Se non si promuove, è per pura professionalità”.

Che farà adesso?
“Si apre una nuova fase in cui è difficile fare progetti a lungo termine. Non credo, comunque, che mi annoierò perché conquisto due cose: la libertà e uno stipendio da fruire per intero, che mi serve per fare quello che voglio. Questi giorni, ogni tanto mi ricordano il motto: semel abbas, semper abbas. Non si tratta di questo. Il direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale mi ha scritto una lettera di apprezzamento e mi ha chiesto la disponibilità per eventuali progetti futuri”.

Vorrebbe dire qualcosa al nuovo preside?
“Innanzitutto il nuovo preside (Sergio Guarente, ndr) è nato e cresciuto dentro al Liceo, quindi conosce l’impostazione. Se dovessi dirgli qualcosa, gli suggerirei proprio la discontinuità. Questo non significa apprezzare o non apprezzare il lavoro che è stato fatto, ma ogni dirigente porta la sua personalità e i suoi interessi. È il bello di questa professione. Gli suggerirei di progettare in proprio arricchendo, ad esempio, le linee programmatiche, con temi come l’educazione della persona, alla natura e all’ambiente, alla democrazia. Sono messaggi che devono essere portati da tutti gli insegnanti. La scuola la fanno gli insegnanti: un buon preside non fa una buona scuola. Il preside organizza, ma il momento vero della scuola è quando l’insegnante si chiude la porta dietro alle spalle e comincia a parlare con i suoi studenti. Purtroppo da questo punto di vista c’è abbattimento. Ormai gli insegnanti diventano tali per sfinimento, dopo anni di code nelle graduatorie. I giovani che arrivano adesso hanno più entusiasmo. Ci sono anziani bravissimi, ma ad un certo punto subentra la routine. Uno dei motivi per cui ho fatto il preside, anche se mi piaceva molto insegnare, è che ho capito che dovevo cambiare. Per questo sono stato 25 anni preside e 20 anni insegnante”.

condividi su:

Condividi su facebook
Condividi su twitter