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Nella notte tra il 24 e il 25 maggio 2007 si consumava a Marsciano il fatto delittuoso che più ha sconvolto la comunità locale, tra sete di verità e voglia di dimenticare la tragedia


Era la notte tra il 24 e il 25 maggio 2007, giusto un anno fa,
quando un fatto delittuoso ha distrutto la vita di molte persone e lasciato un segno profondo nella comunità locale.
Nella villetta rosa a due passi dalla frazione di Compignano di Marsciano, viene brutalmente uccisa Barbara Cicioni, mamma 33enne di Nicolò e Filippo (8 e 4 anni), incinta all’ottavo mese di gravidanza di una terza bambina.
A dare l’allarme il marito Roberto Spaccino rientrato verso mezzanotte dopo essersi recato nella lavanderia ecologica di Marsciano che gestisce insieme alla moglie.

“Rapina in villa finita in tragedia” titolano il giorno seguente i quotidiani ed i telegiornali di tutta Italia. Ma qualcosa non convince gli inquirenti. Il disordine nella casa è troppo “ordinato”, quasi costruito. Inizia la processione di uomini in tuta bianca alla ricerca di impronte, prove, indizi.
Il 29 maggio è il giorno dei funerali di Barbara, celebrati a Morcella suo paese natale, ed è il giorno dell’arresto di Roberto quale unico indagato per omicidio volontario aggravato della moglie e madre dei suoi figli.
Chiuso in isolamento prima nel carcere di Capanne ed in quello di Terni poi, interrogato più volte dal Gip nei mesi successivi, si dichiarerà sempre innocente. Dice di aver avuto una discussione con la moglie e di averla colpita prima di uscire, ma di averla lasciata viva.

Le righe di cronaca nera lasciano intanto il posto al dramma dei figli della coppia, affidati in un primo momento ai nonni materni, poi ai servizi sociali e trasferiti in una casa-famiglia ed infine assegnati temporaneamente dal Tribunale dei Minori di Perugia, lo scorso 24 ottobre, agli zii materni con cui vivono oggi a Roma.
I legali di Roberto Spaccino chiedono in questi mesi gli arresti domiciliari per il loro assistito prima al Gip, poi al Tribunale del Riesame. Ma tutti confermano per il loro assistito la permanenza in carcere.
Lo scorso 29 marzo il Gup Paolo Micheli rinvia a giudizio il marito di Barbara Cicioni confermando tutte le accuse mosse dal pubblico ministero Antonella Duchini: omicidio volontario, maltrattamenti, false dichiarazioni al pm, interruzione di gravidanza della moglie e simulazione del furto nella villetta per sviare le indagini degli investigatori.
A costituirsi parte civile sono i genitori, i figli, gli zii di Barbara e per la prima volta in Italia anche alcune associazioni di volontariato impegnate contro ogni forma di violenza sulle donne. Il processo inizierà a partire dal prossimo 19 giugno.

Al di là della ricostruzione dei fatti, non è semplice capire cosa davvero rimanga di un caso di cronaca. Dopo un po’ di tempo le telecamere si sono spente per lasciare il posto ad articoli sempre più brevi e tecnici, dove si parla di appelli, condanne, ricorsi, ma sempre meno delle persone che con quelle parole hanno a che fare.
Il tempo anziché sanare i bordi delle ferite le slabbra, amplificando le fratture fra innocentisti e colpevolisti. Sì, perché quando non c’è confessione, nel cuore di molti resta un briciolo di dubbio o forse speranza che una storia come questa non possa dipendere da qualcuno che si conosce, con la sete di verità che resta intensa.

Anche in questo caso, nonostante le prime reazioni della comunità marscianese, il dolore non ha saputo trasformarsi in un’azione positiva e concreta, magari nella costituzione di un comitato o di un’associazione per combattere la violenza sulle donne. Alle parole sfornate da chiunque subito dopo quella notte non è stato dato alcun seguito.
I fiori lasciati per Barbara davanti alla sua lavanderia si sono appassiti in fretta per lasciare spazio, dietro al bancone e al posto dei disegni di Nicolò e Filippo, ad una foto sorridente della mamma uccisa che riporta chiunque la osservi, anche di sfuggita, alla dura realtà.
Una realtà che, a distanza di un anno, ha visto forse il dolore farsi meno lancinante, ma non certo rimarginare quelle ferite che restano ancora aperte.

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