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Correvano gli anni '30-40: per le famiglie contadine del marscianese l'economia familiare era fondamentale per sopravvivere in una situazione di stenti e sofferenze

Negli anni ’30 e ’40 nelle campagne di Marsciano, come in gran parte dell’Umbria, in tutte le famiglie contadine le donne che avevano figli piccoli potevano tenere due o tre galline per conto proprio e quando dalla cova della chioccia nascevano i pulcini se li dividevano tra loro.
Il pollaio era di tutta la famiglia e lo gestiva la donna più anziana. Le altre non si potevano avvicinare che per la raccolta delle uova poiché la porta del pollaio era chiusa. C’era solo una buca per far entrare le galline e farle “fetare”.
Le donne per sapere se le loro galline facevano le uova erano autorizzate dalla massaia ad andare a tastarle. Ognuna conosceva bene le proprie galline. E così la sera quando si raccoglievano le uova ciascuna prendeva quelle che le spettavano.
Ogni donna metteva da parte le uova, anche se avrebbe preferito mangiarle, perché quando passava il pollaiolo più ne avevano e meglio era. Il pollaiolo passava tutte le settimane e raccoglieva uova, polli, piccioni, pelli di coniglio e le caricava sul carretto tirato dalla somara. I soldi che le donne raccoglievano servivano soprattutto per mandare a scuola i figli.

C’erano anche gli “obblighi”. Al padrone della terra bisognava dare ogni anno centocinquanta uova, quattro galline, quattro capponi e quattro pollastri. Era il fattore che andava a scegliere i capi più belli. Inoltre si dovevano dare due scope di saggina all’anno.
Poi c’era la bucata ogni due settimane. La padrona, insieme alle donne della servitù, preparava da cinque a otto canestre fatte di vinco piene di panni che, a bordo di un carro trainato dalle vacche, venivano portate al Nestore dove le contadine lavavano i panni strofinandoli sopra delle larghe pietre.
Quando tornavamo da scuola, per pranzo trovavamo maccheroni o tagliolini fatti a mano dalle donne più anziane. Ma senza uova perché le vendevano per comprare i “bocconotti”, il sale, i fiammiferi e lo zucchero per quando stava male qualcuno. In questo caso la mamma ci dava una tazza di caffè.

Il caffè non si comprava. Quando si trebbiava il grano si trebbiava anche l’orzo
che doveva servire per le bestie. Però le donne più anziane ne prendevano un po’, lo pulivano al vento e lo abbrustolivano sulla paletta del fuoco. Veniva nero e un po’ bruciato.
Si macinava sopra alla tavola con una bottiglia di vetro e poi si faceva bollire con un po’ d’acqua. Veniva fuori un caffè torbido, ma con un pezzo di pane si mangiava tutto perché c’era un pochino di zucchero.
Qualche boccone di carne si assaggiava solo la domenica e non tutte. Un bel pezzo si mangiava quando c’erano le faccende pesanti e c’era gente ad aiutare: vangare la vigna, radunare il grano sull’aia, trebbiare, vendemmiare, tagliare la macchia. Per queste occasioni la massaia allevava anche anatre, oche, faraone e “billi”.

Noi ragazzi a casa non facevamo lavori pesanti ma dovevamo comunque darci da fare. Quando tornavamo da scuola, appena pranzato, genitori e zii ci chiamavano. “Via Faustino, Alviero, Emmina, Livio, Enzo chi ta i porce e chi ta le pecore”.
Quando il prato era ancora basso non si potevano mandare a sciarare con il rischio di rovinarlo. Per evitarlo si correva molto. Se una scrofa andava da un’altra parte mentre noi stavamo giocando i grandi che vedevano da lontano ci gridavano: “Stasera facemo i conti!”.
Dopo circa due ore ci chiamavano: “Ormò le bestie son satolle, armettetele e gite a pijà i zappeteie e nit’oltra”. Ci facevano mettere in fila con loro a zappare il grano, a coprire i semi di fagioli, fave, patate, ceci, piselli, granoturco e quello che c’era da fare.

Quando era quasi buio a me, che ero il più grande, mi mandavano a mungere le pecore
. Facevo le caciottine di formaggio come avevo imparato dalla mamma. Erano piccole come i piattini da caffè e alte circa tre centimetri. Ma non si potevano mangiare perché la metà erano per il padrone.
Si mettevano ad asciugare per poterle grattare sulla pasta quando c’era qualcuno, ma non bastavano mai. Allora la massaia, ad uno di noi ragazzetti, ci dava due uova per andare a prendere un pezzetto di formaggio dal bottegaio.
Gli uomini che fumavano, sempre di nascosto, ci davano un uovo per prendere due o tre sigarette.

Dal bottegaio, per le piccole spese per casa, si portava il libretto.
La stoffa per i vestiti la contrattava il più grande di casa. Era sempre poca roba e di rado. E così come col bottegaio anche per il fabbro, il falegname, il sarto, il calzolaio e il farmacista si segnava la spesa che si faceva. Appena trebbiato si facevano i conti con tutti e si pagava in grano.
Il conto più grosso era col bottegaio che quasi tutti gli anni riceveva con un biroccio sui quindici quintali di grano. Con il carro trainato dalle vacche gli altri si portavano via chi quattro o cinque o sei quintali di grano e chi, dopo la vendemmia, anche un po’ di mosto per fare il vino.

I soldi a nessuno perché non c’erano. Meno di tutti prendeva il calzolaio
perché d’estate andavamo tutti scalzi. Solo il farmacista mandava il conto a casa e voleva solo soldi. E così si doveva vendere il grano e si pagava. Ma c’erano gli imprevisti. Se la stagione andava bene si riusciva a saldare tutti i conti altrimenti si rimandava all’anno successivo. E così per la famiglia rimaneva molto poco.
Durante l’inverno le donne, sia grandi che piccole, andavano nei campi a cogliere l’erba. Di solito cavoli e rapi. La sera, sia prima che dopo cena, la sceglievano.
Gli uomini, sia grandi che piccoli, prima che si faceva buio andavano sull’aia e con i crini portavano la paglia alle bestie. Si dovevano chiudere le finestre con la paglia dove mancavano i vetri. Poi si metteva anche nelle fessure delle porte.

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