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La scoperta è opera di un gruppo di ricercatori dell'Università di Perugia insieme a loro colleghi dell'Ateneo di Milano

Secondo quanto è emerso da una ricerca condotta da due gruppi di ricerca dell’Università di Perugia e di Milano su alcuni ghiacciai delle Alpi italiane c’è vita nel ghiaccio
I due gruppi di ricerca sono stati coordinati dai professori Pietro Buzzini, dell’Università di Perugia, e Claudio Smiraglia, per l’Ateneo di Milano.
I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista inglese Fems Microbiology Ecology hanno, infatti, messo in evidenza – secondo quanto reso noto dagli stessi ricercatori – la presenza di cellule vive di lievito, intrappolate sia nel ghiaccio sia nei sedimenti sub-glaciali, gettando così una nuova luce sulla presenza di microrganismi in ambienti così inospitali da essere definiti estremi.

La presenza dei microrganismi è risultata “estremamente diffusa”, in questi ambienti, grazie alla capacità di sopravvivere dovuta a specifici meccanismi di adattamento fisiologico. Dalla ricerca è inoltre emerso che molti dei lieviti presentano notevoli affinità con analoghi microrganismi presenti negli ambienti polari come l’Artide e l’Antartide.
Le conseguenze sono diverse: da un punto di vista ambientale questa scoperta è la prova – sempre secondo i ricercatori – che il ghiaccio, e i sedimenti sub-glaciali dei ghiacciai alpini, rappresentano un nuovo habitat per la vita microbica finora sconosciuto.
Da un punto di vista biotecnologico, i microrganismi presenti in tali ambienti, ed isolati nel corso dello studio, possiedono proprietà metaboliche che permettono di ipotizzare un loro utilizzo come fonte di nuove molecole bio-attive per l’industria agro- alimentare, cosmetica e farmaceutica.

Peraltro i lieviti sono stati involontari protagonisti di una scoperta italiana in terra d’America.
Un lievito come quello usato dai fornai per fare il pane, con modifiche genetiche ed una dieta adeguata ha saputo che la sua vita è stata allungata a 8 secoli.
L’esperimento è stato coordinato dall’italiano Valter Longo dell’Università della California del Sud ed il traguardo è stato ottenuto spegnendo i geni RAS2 e SCH9, che promuovono l’invecchiamento nel lievito e il cancro negli uomini.

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