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Riflessioni intorno alla crisi delle piccole sale cinematografiche

La crisi del cinema Jacopone di Todi denunciata qualche giorno fa su queste pagine non è soltanto la crisi dei piccoli cinema, ma è la crisi del cinema italiano e ancora più in generale è la crisi del cinema di qualità.
Prima ancora che nella fruizione, il cinema è stato pugnalato al cuore in fase di produzione. La multisala non soltanto toglie ossigeno alle monosale e ai cinema storici, ma comporta anche un generale appiattimento (che è schiacciamento verso il basso) dei linguaggi e dei contenuti cinematorgrafici.
Le imponenti produzioni hollywoodiane impongono i propri standard: storie, psicologie, personaggi, cast, modalità di scrittura del film. Hollywood insegna, il resto del mondo (per ora, anche se dall’Oriente arrivano i segnali di una possibile trasformazione degli equilibri cinematografici tradizionali) si adegua.
Ad esempio: un pur bel film tedesco come “Le vite degli altri” fa delle evidentissime concessioni alla maniera filmica americana. E l’autore, dopo aver costruito personaggi non del tutto banali e interessanti contrappunti psicologici, piazza in coda al film un grossolano lieto fine strappalacrime che rischia di rovinare tutto il suo lavoro precedente. Risultato: Oscar come miglior film.
In Italia è azzardato perfino pensare di poter competere con le multinazionali del cinema (e pensare che a Hollywood, negli anni quaranta e cinquanta andavano matti per il nostro neorealismo, e si può dire che abbiano imparato da noi come si gira un film). Sul piano delle commedie o del thriller non c’è produzione italiana, per quanto ricca, che possa arrivare a risultati paragonabili a quelli d’oltreoceano. Perché dagli Stati Uniti, questo va detto, arrivano sì film un po’ tutti uguali, con una morale spesso indigeribile e baci appassionati prima dei titoli di coda, ma si tratta comunque di ottimi prodotti, che svolgono egregiamente la loro funzione di intrattenimento.
Se dovessimo imitare questi standard, quindi, senza i soldi e senza la forza di diffusione degli originali, il destino sarebbe quello di una subalternità eterna. Così il cinema italiano ha sempre provato a difendersi con la sua tradizione, autoproclamandosi cinema d’autore. Niente commedie (a parte i cinepanettoni e qualche isolata eccezione) e soprattutto niente thriller (il genere più venduto), ma film che, sulla scia dei Rossellini, dei Fellini, dei Pasolini, degli Antonioni, dei Petri, vorrebbero indagare l’uomo e la sua condizione nel mondo attraverso uno sguardo d’artista (d’autore, appunto), senza i condizionamenti del film di genere.
Purtroppo però fare un film d’autore senza dei geniali autori è un rischio. Se invece di Fellini c’è Muccino, la differenza si percepisce. In più negli ultimi anni il cinema italiano ha subito in modo sempre più asfissiante i condizionamenti della televisione, e i film italiani somigliano sempre di più a delle fiction di due ore. Stefano Accorsi continua a passare da un film all’altro tradendo tutte le mogli o le fidanzate che trova sulla sua strada. Le povere donne abbandonate, dal canto loro, che perlopiù piangono nel buio di una stanza, in realtà sognano di essere come la Bellucci per poter conoscere Scamarcio molto da vicino. Margherita Buy, che è pure una brava attrice, continua ad essere lasciata dai suoi mariti e ad avere crisi di nervi da quel maledetto giorno in cui ha incontrato Carlo Verdone. Silvio Muccino continua ad essere un ragazzino timido e tenero che si fa le canne per piacere alle ragazze, le quali puntualmente vanno a letto con uno molto più figo di lui (in genere Scamarcio o Stefano Accorsi). E così via.
Non mancano le eccezioni, e questo va sottolineato: Sorrentino, divenuto famoso per Le conseguenze dell’amore, è un ottimo regista, degno della migliore tradizione italiana. Così come promette bene Crialese, l’autore di “Nuovomondo”, e così come continuano a confermarsi Bellocchio o Nanni Moretti.
Un’altra causa della decadenza dei consumi nel cinema va rintracciata in quel baraccone colorato che stiamo ospitando a Todi in questi giorni con tutti gli onori. Fenomeni televisivi come quello di “Amici” modificano l’orizzonte dell’intrattenimento dei giovani, il cui gusto è stato talmente influenzato che ormai comprano trasposizioni di “Amici” in tutte le forme possibili: libri, film, spettacoli teatrali.

Al cinema servirebbe dunque il coraggio di provare ad uscire dagli stereotipi, di sperimentare: e non vale solo per gli autori, ma anche e soprattutto per gli spettatori. Perché il cinema è vedere il mondo con uno sguardo diverso, mai usato prima, e non un televisore un po’ più grosso. Servirebbe un coraggio che dovrebbe essere sostenuto da soldi pubblici spesi meglio dei già molti che attualmente vengono spesi per il cinema: per abbassare il costo dei biglietti, ma anche per liberare gli autori dalla logica del profitto. Stretti nell’angoscia degli incassi difficilmente si può fare un bel film.
Servirebbe, poi, una radicale rieducazione del gusto. Un riabituare il pubblico intossicato dalle immagini di tutti i giorni a guardare, a vedere.
Per quanto riguarda la sala Jacopone, vorrei riprendere e approfondire un’idea che Maurizio Giannini mi aveva già suggerito qualche tempo fa. Smettiamola di inseguire con una rincorsa disperata le multisale. Lasciamole correre da sole. Lasciamo che chi vuole vedere Natale alle Bahamas vada fino a Corciano, e facciamo diventare la sala Jacopone una palestra per la rieducazione degli occhi. Un cinema che faccia soltanto retrospettive, che proietti i grandi film del passato, magari con conferenze, incontri, dibattiti per guidare il pubblico alla visione. Un cinema d’essai, per capirci, anche se non mi piace molto questa definizione.
Un cinema del genere ovviamente necessiterebbe di un finanziamento pubblico, ma non c’è da scandalizzarsi: sarebbero soldi spesi bene. Si potrebbe utilizzare la sala anche come luogo di didattica, e i film potrebbero diventare un prolungamento delle attività scolastiche. Un luogo per insegnare ai ragazzi la storia del cinema, che è un pezzo imprescindibile della cultura del Novecento. Un posto del genere potrebbe avere più possibilità di sopravvivenza, anche in termini economici, di quante ne abbia un cinema che ripete debolmente Corciano a quindici giorni di distanza. Potrebbe diventare un luogo dinamico, aperto alla cittadinanza, magari con una sua videoteca, un servizio prestiti, una biblioteca specializzata. Esistono cose del genere, e funzionano, anche in realtà molto più marginali di Todi, e con una meno illustre tradizione culturale.
Sarebbe importante che non si realizzasse proprio a Todi la sfortunata profezia fatta dal padre dei fratelli Lumières: “il cinema è un’invenzione senza futuro”.

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