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Uno studio scientifico mette in guardia dagli effetti collaterali e contesta la riduzione di anidride carbonica

Dopo gli entusiasmi iniziali i biocarburanti sono sotto attacco da più parti: aumentano quelli che predicono una carenza di cibo per la “voracità” dei motori e quanti contestano il beneficio di riduzione dell’effetto serra.
Alcune cose sono però già chiare. In primo luogo, per quanto si voglia spingere in Europa la produzione di biocarburanti, questa riuscirà al massimo a stare al passo con l’aumento dei consumi.
I biocarburanti saranno un affare soprattutto per i produttori; sia perché saranno più remunerativi di altri impieghi agricoli, sia perché potranno entrare in gioco agricoltori di molti più paesi di quanti siano quelli produttori di petrolio. In questo ultimo senso si è parlato di “democrazia”, ma forse sarebbe meglio parlare del passaggio da una “dittatura” ad una “oligarchia”.
A sostenerlo è uno studio redatto da esperti in ingegneria biochimica. Alle stesse conclusioni è arrivato l’Ufficio Federale dell’Energia svizzero (UFE): ”I biocarburanti – si afferma nello studio – non sono necessariamente più ecologici dei carburanti di origine fossile”.
Secondo lo studio di ingegneria biochimica, infatti, le emissioni di anidride carbonica che l’etanolo e la benzina rilasciano in atmosfera sono le stesse con la differenza che l’ efficienza dei motori alimentati a etanolo è inferiore e, quindi, la quantità di emissioni è circa il 54% in più.
Lo studio svizzero, invece, va molto sullo specifico. Esamina, infatti, i bilanci ecologici di quattro biocarburanti: bioetanolo, biometanolo, biodiesel e biogas.
Per la maggior parte di essi si riscontra un conflitto fra l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra e quello di ottenere, complessivamente, un bilancio ecologico positivo. Sebbene i biocarburanti siano prodotti con materie prime rinnovabili, la coltivazione e la lavorazione di queste ultime può provocare un ampio spettro di problemi ambientali, che vanno dalla concimazione eccessiva e dall’acidificazione dei terreni agricoli fino alla perdita di biodiversità.
Lester Brown, presidente della think-tank Worldwatch Institute e autore del best-seller “Chi sfamerà la Cina?”, presenta invece così, come riportano “Guardian” e “Repubblica”, la questione alimentare: “Siamo di fronte a un’epica competizione per le granaglie tra gli 800 milioni di automobilisti del pianeta e i due miliardi di poveri della terra“. Come in quasi tutte le sfide tra ricchi e poveri, non è difficile immaginare chi la stia vincendo.
L’anno scorso già il 20% del raccolto di granoturco Usa è stato usato per la produzione di etanolo, i cui stabilimenti raddoppiano di anno in anno. Una politica analoga è in corso un po’ ovunque, dall’Europa all’India, dal Sud Africa al Brasile. Diminuendo la terra destinata alla coltivazione di grano, il prezzo del frumento è aumentato del 100% dal 2006, e ciò sta portando ad aumenti da record dei prezzi dei generi di prima necessità: pane, pollo, uova, latte, carne.
Ad accrescere le preoccupazioni del dottor Brown c’è il boom demografico ed economico di Cina e India, i due giganti in cui vive il 40 per cento della popolazione mondiale: anche perché cinesi ed indiani stanno abbandonando la loro tradizionale dieta ricca di verdure a favore di un’alimentazione più “americana”, che contiene più carne e latticini.
Non tutti condividono gli scenari catastrofici. “Il Brasile ha 3 milioni di chilometri quadrati di terra arabile, di cui solo un quinto è attualmente coltivato e di cui solo il 4 per cento produce etanolo”, dice il presidente brasiliano Lula. Ma le Nazioni Unite calcolano che la richiesta di biocarburi aumenterà del 170 per cento solo nei prossimi tre anni.
Eppoi lo stesso Presidente Brasiliano trova ostacoli in casa propria. Arrivata la scoperta di poter alimentare le auto con le noci di cocco delle piante di babasù, una palma abbondante in Amazzonia orientale e, soprattutto, nel povero nord-est brasiliano, le popolazioni locali si sono ribellate.
Sono soprattutto le donne, infatti, a sopravvivere estraendo l’olio dei frutti ed altri prodotti che vengono utilizzati per alimenti, prodotti per l’igiene e artigianato, attività che potrebbero essere compromesse da una produzione meccanizzata e dall’utilizzo delle palme per produrre energia da biomasse. Il ‘Movimiento interestadual de rompedoras del coco Babasu del Maranhao”, ha raccolto in poco tempo circa 400 mila donne che hanno intenzione di difendere la loro attività.

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