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Il Ministero propone un miglioramento del servizio, ma non tiene conto che l'esternalizzazione delle cucine pregiudica la qualità del vitto

Parlano bene il ministro della salute Livia Turco ed il presidente di Slow Food Italia Roberto Burdese quando dicono di voler: “garantire una «buona e corretta» alimentazione al malato, perchè anche il cibo contribuisce a migliorare il suo equilibrio psico-fisico facilitando la guarigione”. Peccato che quasi sempre negli ospedali Umbri da qualche anno si mangia sempre peggio e, forse, la responsabilità non è solo della scarsa qualità degli ingredienti, ma dai sistemi di organizzazione del servizio che spesso vedono le cucine distanti dagli ospedali e tempi di trasporto troppo lunghi.
Gli obiettivi dell’accordo tra il Ministero e slow food sono chiari: rendere pranzi e cene più succulenti, portando nel piatto dei pazienti quei prodotti locali e stagionali di qualità, punto di forza delle piccole produzioni tradizionali e artigianali, che nascono nel territorio stesso. Questo vuol dire un rapporto diretto con le realtà agricole locali. In questo modo la maggiore qualità è garantita, anche perchè i prodotti utilizzati non sarebbero più sottoposti a lunghi tempi di percorrenza.
Già, gli ingredienti dei pasti viaggerebbero meno, ma i pasti? Sono oltre 240 milioni i pasti serviti ogni anno negli ospedali italiani e oggi il 50% del cibo somministrato viene poi buttato via. Una ‘piccola, grande cosa’, per il malato, sarebbe anche non essere ad esempio costretti a cenare, immancabilmente, alle cinque del pomeriggio: per questo, Turco pensa ad una maggiore flessibilità negli orari dei pasti, per renderli più vicini alle abitudini del paziente. Buona l’idea, ma praticabile solo nel caso che la cucina sia a portata di mano.

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